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Craniata terribile

Anche stasera ripieni.
Mbè?, dice lei.
Odio i ripieni da quando sono venuto al mondo.
Mamma allora apre il frigo. Tira fuori un piatto.
Salame. Ancora.
Già, dice lei.
Tu mi vuoi uccidere?
No.
Ma è poco convinta.
Papà non fiata, il faccione congestionato a due centimetri dalla scodella di riso e patate. Poi in processione davanti alla tele. Stasera quiz. Il presentatore legge le domande ai concorrenti con licenza media. L’inquadratura indugia sulle tette di una valletta. Papà si aggiusta sul divano. Volume, dice, e pigia un pulsante del telecomando. Stanghette dritte si moltiplicano sullo schermo.
Chissà. Forse Papà pensa che le tette siano solo un po’ timide. Così compresse nel reggiseno. Recluse. Seviziate. Un giorno evaderanno dalla prigione e racconteranno meraviglie in diretta.
Stanghette dritte sullo schermo, al massimo.
A Papà basterebbe un bisbiglio.
Mamma lo squadra, come prendesse le misure a un ripieno, o a un cadavere per la bara.
Niente.
Le tette non parlano.
Ansimano.
No, non le tette.
Tom, il nostro cane, all’angolo del salotto.
Muso contro la parete, pare in castigo. In realtà, superati i quindici anni, è diventato cieco. Buio totale. Nei lunghi pomeriggi, fa la guardia ai muri della cucina. Immobile. O arranca verso il bagno: tu pisci e Tom che ringhia al calorifero che gorgoglia. Tiri su la zip, e Tom si accorge di te, ti cerca, ma non abbandona il servizio. Tom, la sentinella. Tramonta il sole, Tom si trascina per la casa, sbatte contro i mobili, la ronda prosegue. Guardia ai muri del salotto. Immobile. Povero Tom. Forse ha paura che un muro scappi di nascosto. O crede che lì davanti a sé si srotoli l’intero orizzonte mozzafiato, e creste di montagne, spazi immensi, corse nei prati. Ha accennato uno scatto, una volta. Chissà. Il ricordo dei bei tempi di quando era cucciolo e Papà andava a caccia. Dritto contro le piante da appartamento di Mamma. Mamma che brandisce la scopa, Tom che mastica le foglie. Mamma che assesta il colpo definitivo, Tom che guaisce e sbanda lungo il corridoio: una salsiccia dalle zampe corte che scintilla sulle pareti.
Mamma disperata, non solo per le piante.
Tom, e lo specchio in frantumi.
Craniata terribile.
Tom stava lì, tra i vetri.
Occhi fissi.
Forse aveva visto brillare una luce sullo specchio. Creduto fosse una via di fuga. Ecco cosa succede a chi vede la luce.
Ecco cosa succede a fuggire.

Polpette?
Già, dice.
Mi alzo. Apro il frigo.
Che fine ha fatto il salame?
Mamma mi scruta impenetrabile. Butto giù un boccone. Il secondo. Papà ha già finito di mangiare. Mette in riga le pillole per la pressione. Riempie il bicchiere di vino, fino all’orlo. Lo sguardo di Mamma lo trapassa.
Non ci provare.
Papà non cede. Pillole e vino, in un unico sorso.
Mamma scatta in piedi, e mitraglia una filippica da apocalisse.
Così si ammazza, dice. Mano a baionetta.
Lei rimane vedova con un figlio precario e un cane cieco.
Papà si versa un mezzo bicchiere.
Che nessuno le dice mai che è una brava cuoca. Mamma divaga.
Esplosione, vaso in frantumi. Ci giriamo verso il corridoio. Dall’oscurità compare la lingua blu fosforescente di Tom che, dopo aver centrato un paio di spigoli, si adagia sulle mie gambe. Lo accarezzo sul muso.
Guaisce.
Lascio scivolare un pezzo di polpetta al salame.
Lui prova ad addentarla. Urlo.
Mi ha quasi morso i coglioni.


Parco, ore 21. Sera d’estate. Lungo il viale principale.
Trascino Tom per il guinzaglio. Bella coppia, siamo. Ci sono cani pastori che portano in giro i ciechi. E cani ciechi portati in giro da precari.
Tom si accuccia. Vuole farsi un bidè.
Oh oh.
Dico a Tom di darsi un contegno.
Oh oh.
Esili sagome femminili all’orizzonte.
Oh oh.
Capito, Tom?
Lo sanno tutti, portare cani a spasso è una scusa. Gironzoli nei pressi di un’esile sagoma femminile munita di guinzaglio. Attendi che il tuo cane fiuti il suo. Il tuo cane comincia a tirare, sei costretto ad avvicinarti. Il tuo cane ficca il muso nei genitali del suo. Ti lasci scappare un apprezzamento sul suo cane, anche se è un cane disgustoso. Come si chiama quanto anni ha cosa gli dai da mangiare.
Discorsi inutili, privi d’interesse. Fondamentali. Per capire se lei è una giovane femmina in calore in cerca del suo capo branco. Se ha le caviglie grosse. Se è butterata. Se ha un reggiseno progettato per fregarti. L’esile sagoma femminile, invece, tenta di capire se sei davvero il suo capo branco o uno squallido gregario.
Me l’ha insegnato Tom. Odora genitali da quando è cucciolo, ha esperienza e stile. Ho seguito il suo comandamento: trovare l’essenza negli incontri. Essere critici, quando si può. Indiscriminati, quando non si può. Mi ha trascinato alla ricerca di genitali femminili quando pioveva, quando ero triste, quando pensavo che il mondo complottasse contro di me. La vecchia scusa dei bisognini. Devi uscire, pareva dirmi. Devi. I genitali femminili sono l’essenza, il resto è blabla autodistruttivo. Ora Tom è cieco. È il mio turno, Tocca a me trascinarlo in cerca di una cagnetta consenziente. Devo prendermi cura di lui. È stato il mio migliore amico. Imbocchiamo una via laterale tra platani in fiore.
Oh oh.
Ragazza bionda con dalmata.
Vai, bello, fai il tuo dovere.
Tom si lancia a tutta birra dalla parte sbagliata.
Calcetto sul posteriore, per suggerirgli la direzione. Ecco. Tom trova il binario.
Vai, bello, fai il tuo dovere.
Ci siamo.
Uno due tre. Lo inseguo. La bionda è lì che attende, attorciglia il guinzaglio tra le mani. Il dalmata, ritto sulle zampe, una statua da giardino. Sono vicino, ormai.
Tom si blocca. Lo raggiungo.
Vai, bello, fai il tuo dovere.
Calcetto sul posteriore.
Tom si rannicchia, striscia. Fiutato qualcosa. Il sedere del dalmata, che lascia fare. La bionda mi sorride. Via libera.
Come si chiama?
Shakira.
Quanto ha?
Due anni, è una cucciola.
La bionda reclina il capo all’indietro, e ride, mostra il collo. Buon segno: disponibile. Rido anch’io, per farle intendere che ho capito il motivo della risata, anche se non è vero. Intendere che ho una buona dentatura. Intendere che sono sensibile ai cuccioli, quindi ai bambini, quindi che sono un ottimo padre per i figli che avremo insieme. Anche se in realtà mi interessano solo i suoi genitali. Parola d’ordine: ingannare.
Cosa le dai da mangiare, chiedo.
Crocchette. È un po’ capricciosa, Shakira.
È molto bella, però.
La ragazza bionda guarda a terra. Gradualità, negli incontri. Occhi negli occhi: pericoloso, troppo presto. Un’occhiata rubata: strategico. Ormai ci siamo comunicati l’essenziale. Lei ha detto, tramite il cane, d’essere una ragazza di categoria superiore, con delle pretese, che può permettersi di essere capricciosa.
Io, che la trovo arrapante. Anzi, sbavo. No. Solo i gregari sbavano. Parola d’ordine: ingannare.
Alza lo sguardo, è il suo turno. Sono un capo branco o uno sfigato? Mi volto verso i cani, agevolo l’analisi. Ho la camicia buona. Spalle da lottatore. Basette raddrizzate di recente. Non ha abbastanza elementi per valutare il mio estratto conto, che per l’esattezza è zero. Sono precario con estratto conto zero. Un fiasco. Un bidone. Nessun futuro. Il dalmata scava una buca. Mi guardo in giro. Che fine ha fatto Tom? Lo chiamo. Niente.
Chiamo ancora.
Una specie di ululato, poco distante.
Tom.
La ragazza bionda mi aiuta a cercarlo, tra le felci. Non c’è. Superiamo una fontanella. Lei mi sta davanti. I capelli legati a coda le scodinzolano sulla deliziosa canottierina azzurra. La ragazza si ferma. Il dalmata le circonda le gambe. Laggiù, un platano in mezzo a una radura.
È il tuo cane, chiede.
Ai piedi dell’albero c’è Tom, col muso schiacciato contro la corteccia. Abbaia rabbioso.
Vieni qui, Tom.
Tom drizza le orecchie. Smette di abbaiare.
Carica l’albero.
Craniata terribile.
Si accascia su un fianco. Corro.
Che hai fatto, Tom? Chi credi d’essere? Don Chisciotte? Gli alberi non sono mica mulini a vento. Così ti fai scoppiare la testa. Ti rincoglionisci del tutto. Tom ansima, lingua a penzoloni. Combini dei casini. Rompi tutto. Mamma non ne può più. Dice che bisognerebbe farti abbattere, così la smetti di soffrire. Tom guaisce, come avesse capito.

È appena suonata la sirena, un lungo lamento che fa voltare le sagome femminili munite di guinzaglio. I cani vengono richiamati, presi per il collare, tirati via. Mi rimbocco le maniche. Stanno per chiudere il parco.
Su, Tom. Andiamo a casa.
Allargo le gambe. Cerco di sollevare Tom. Trattengo il respiro e Tom è sulle mie spalle. Mi allontano verso l’uscita. Il suo cuore che pulsa sul mio collo. La lingua blu fosforescente bagna la camicia. Impregna il cotone di saliva. Apre una ferita trasparente.

Pizza?
Già, dice.
Pizzeria Da Enzo. Sollevo il coperchio di cartone. Pizza con le melanzane. Mamma stringe le posate. Il coltello, rivolto verso di me.
Non l’hai fatta tu, vero?, dico.
Mamma pianta la forchetta al centro della sua pizza. La forchetta resta verticale.
No, scandisce.
Papà studia la sua pizza Margherita. Poi la piega a metà. La studia ancora. La piega in quattro. La stringe tra le dita. La Margherita si dimena, prova a riprendere la forma originale, ma la morsa di Papà, ex muratore in pre-pensionamento spontaneo, è formidabile. Schizzi di sugo eruttano sulla tovaglia. Papà non molla. La Margherita rantola. Papà la fa scivolare sul piatto. Strangolata. La Margherita è immobile, rigida. Papà sospira soddisfatto e infierisce sul cadavere. La piega in otto.
Non puoi mangiare come tutti noi cristiani? dice Mamma.
Son comunista, risponde Papà, e addenta la pizza spessore panettone.
Domani cucinami un bambino, dice a bocca piena, e scoppia a ridere. Afferra la birra, come avesse pronunciato la battuta del secolo. Un’esitazione. Riempie il bicchiere. Avrebbe voluto bere dalla bottiglia, come ogni muratore, ma Mamma non gliel’avrebbe fatta passare liscia. Ecco, penso. L’amore è questa roba qui. Trovare un accordo. Un punto d’incontro tra concessioni e divieti. Scontrarsi qualche volta, certo, ma evitare di lasciare morti sul campo. Anche perché il morto potresti essere tu, visto che è Mamma ad avere il coltello in mano. Finita la cena, Papà mette in riga le pillole per la pressione. Alza la bottiglia di birra controluce. Vuota. Guarda intorno. Dov’è il vino? Dove diavolo è finita la bottiglia di vino? Ma non osa chiederlo. Mamma impila i piatti, lo fissa un istante. Papà intercetta lo sguardo. Si sorridono. Già, penso. Quella faccenda dell’amore. Il rispetto dell’altro, eccetera. Qualcosa di vero. Non si può che apprezzare chi è più furbo di te. Oppure lo si può uccidere, e allora non sarebbe amore. Papà si rassegna all’acqua.
E domani cucinami un bambino, dice.
Mamma, questa volta, ride di gusto.
Processione davanti alla tele.
Telecomando, ordina Papà.
Mamma cerca tra un cuscino e l’altro. Glielo porge. Papà allunga il braccio verso la tele.
Uno, dice.
Schiaccia uno. Ripone la verga del potere, ovvero il telecomando, sul bracciolo. Piedoni sul tavolino. Mamma legge a voce alta la guida tv. Papà decide per un film anni Ottanta che danno sul nove.
Nove, dice, e schiaccia il bottone corrispondente. Papà ha un rapporto vocale con la tele.
Due nel mirino con Mel Cìson e Gold An. Mamma ci ricorda titolo e attori.
Già visto, sentenzia Papà, è la storia di un infame.
Quante volte?, chiede Mamma.
Una.
Troppo poche, penso. Stasera Due nel mirino: lui è un ex pacifista che vive da quindici anni sotto la protezione dell’Fbi. Cambia di continuo casa e identità per aver testimoniato a un processo contro un paio di sbirri corrotti. Lei è la sua ex fidanzata che dopo tanto tempo se lo ritrova davanti, lo mette nei guai e iniziano a scappare dai criminali in cerca di vendetta. Pubblicità. Venti spot.
Che vuol dire Ef bi ai, chiede Mamma.
La prima lettera sta per federasiòn, dice Papà.
E bi?
Polizia, in americano.
Il film durerebbe circa cento minuti. Centocinquanta con le pubblicità. Arranchiamo verso il solito finale enfatico. I buoni vincono, trovano l’amore, gli concedono l’aumento di stipendio, medaglia al valore, fuoristrada biturbo, casa due piani, piscina, e gli regalano un cucciolo di cane. Bianco, s’intende. I cattivi. Muoiono tra lancinanti e inutili sofferenze. O ammanettati e sbattuti a calci in galera, dopo un processo farsa in cui vengono minchionati da pubblico ministero, testimoni, giudici, giornalisti, familiari delle vittime e una donna delle pulizie che passava di lì per caso. Aspetta. Anche dal cane bianco dei protagonisti che gli abbaia contro e fa ridere tutti quanti.
Già, il cane.
Tom non si muove da ieri sera. Sta nella sua cuccia, e dorme. Guaisce nel sonno. È venuto il momento.
Che facciamo con Tom?
Spegniti, dice Papà e schiaccia il pulsante rosso del telecomando.
Restiamo con lo sguardo fisso sulla televisione spenta.
Portalo dal veterinario.
E se quello dice che ha le batterie scariche?
Silenzio.
Allora?
Lo sai anche te, dice Mamma.
Almeno a loro, alle bestie, si può dare una fine dignitosa, dice Papà. Mica come con le persone, che ti costringono a soffrire fino all’ultimo.
Silenzio.
Intanto portalo dal veterinario, dice Mamma. Mi accarezza il ginocchio.


Dormito male, stanotte. Incubi. C’ero io e il veterinario. Eravamo a scuola per l’esame di maturità. Arriva un bidello. C’è il tuo cane in giro per la scuola, dice. Rompe tutto. Combina casini. Vallo a prendere, sennò ci pensiamo noi. I bidelli alle sue spalle indossano uniformi da sbirri corrotti. Chiedo consiglio al veterinario. Lui dice che quelli dell’Fbi non sono pagati per spifferare tutto ai quattro venti. E io so che se vado a cercare Tom, verrò bocciato all’esame di maturità. Finirò a fare il precario per tutta la vita.
Che faccia che hai, dice Mamma, hai due occhiaie.
Già.
La pizza. Non l’hai digerita.
Può essere.
Non la fanno come la faccio io.
In effetti la pizza di Mamma è tutta un’altra cosa. O almeno dovrebbe, visto che non se la ricorda più nessuno. Dice che gli anni che passano le hanno tolto la voglia di cucinare. Ripieni a parte.
Lo porti stamattina?, dice.
Mh. Papà?
È giù.
Papà si sveglia alle cinque e mezza. L’abitudine di quando lavorava. Ha colto l’occasione per pulire la macchina, rettificare il motore, cambiare i tergicristalli, controllare olio e antigelo. E fumare due sigarette di nascosto. Gli faccio un cenno dal balcone. È lì, che fuma la terza, in giacca e mocassini. Cofano aperto, motore che scoppietta.
Esco di casa con Tom sulle spalle, che dorme.
Ciao Pà.
Adagio Tom sul sedile posteriore, mi siedo accanto. Papà ingrana la retro, fa manovra, ingrana la prima. La Regata diesel color canna di fucile s’infila nel traffico del mercoledì mattina.

Sala d’aspetto.
Ti vengo a prendere quando hai finito, ha detto Papà. Si riferiva solo a me, come sapesse già tutto. C’è questa sala bianca, coi muri bianchi e foto di animali appese. Cani, gatti, pinguini. Un leone che sbadiglia. Un delfino che salta oltre la diga. C’è questo tipetto seduto di fronte. Secco secco. Gambe a forbice. Faccia senza mento. Fissa Tom, ai piedi della seggiola, lo valuta, conta le ore che gli restano. Di rimando guardo il cagnetto che gli sta appiccicato alle caviglie. Un barboncino, roba del genere. Le zampe posteriori imbragate in una struttura metallica con le ruote. Il barboncino fa due passi nella mia direzione, le ruote cigolano. Rumore dalla sala attigua. Il cagnetto sgomma indietro, vicino alle caviglie del tipetto.
Tumore, dice la faccia senza mento.
Cosa?
Ha avuto un tumore alle zampette di dietro. L’ho fatto operare prima che il tumore se lo mangiasse tutto. Paralizzato.
Ah.
Il suo?
Cieco. Dorme da due giorni.
Il tipetto curioso mi fa cenno di sì, come se lo sapesse. E poi: oggi è il giorno della visita, dice. Magari l’abbiamo preso in tempo questo tumore. Il suo, invece?
Visitare. Anch’io.
Si apre la porta della sala attigua. Una ragazza in camice bianco chiede il nome al signore senza mento. Lo fa entrare.
Si chiama Klaus, mi dice. Vieni Klaus.
Il cagnetto con le rotelle lo segue incerto.
Resto da solo. Tom dorme ai miei piedi. Passo in rassegna le foto appese al muro, una a una. Non so nemmeno se mi piacciono oppure no. Torno seduto. Andrà tutto bene, Tom. E Tom apre gli occhi, per la prima volta da ieri. All’improvviso, si è svegliato. Lo sapevo. Tutta una recita. Ci volevi far spaventare, Tom. Volevi attirare l’attenzione per vedere se ti volevamo bene sul serio. Eh, Tom? Che cane matto, sei.
Eh, Tom?
Sei proprio un cane matto.
Guardo meglio.
No, non ha aperto gli occhi. Mi mordo il pugno, spalanco le palpebre per tenermi tutto dentro. Questo è dolore, penso. Dolore vero, mica immaginazione, e proiezioni, e blabla. Dolore autentico. Tossisco. Buttarlo fuori. È solo aria compressa nei polmoni, aria che appanna le pupille, le fa lacrimare. Si apre la porta della sala attigua. Spunta la testa della ragazza in camice bianco.
Tutto bene?
Sì, sì.
Dietro di lei scivola il signore senza mento. Ha la struttura metallica tra le mani. Fa girare una ruota. Ringrazia qualcuno all’interno. Mi guarda sottecchi, gli occhi velati, senza espressione. Dà una banconota alla ragazza che gli consegna la fattura. Lui la appallottola e la infila nella tasca interna della giacca. Mi fa un cenno con la mano che torna in fretta sulla struttura metallica. Si dirige verso l’uscita, con le sue gambe a forbice.
Tocca a lei, dice la ragazza.
Entro nella sala con Tom in braccio.
Ci si fanno certe idee strane in testa. Ci si aspetta chissà che. Dovesse accadere qualcosa di straordinario. Poi sei lì, e diventa semplice.
Papà ha posteggiato davanti al portone. Salgo in macchina. La Regata diesel color canna di fucile con la freccia destra che lampeggia. Traffico. Clacson.
Fammi scendere, gli dico.
Scendo, la Regata s’allontana. C’è un bidone della spazzatura. Apro lo sportello. Getto collare e guinzaglio.
Vago per un po’.
Torno a casa.



Prefazione di Alessandra Casella


Maurizio Patella ci racconta l’Italia piccola, l’Italia dei tinelli. L’Italia dei padri dall’ideologia spenta che abulici si fissano sulle tette televisive; l’Italia delle madri disperatamente feroci, troppo impegnate a tenere insieme i lembi di una famiglia in lenta deriva per permettersi un sorriso, troppo intente a evitare la terrificante delusione dalla loro non-vita per non accanirsi sui fornelli. L’Italia dei figli precari, che trovano nella passeggiata del cane la miglior occasione sociale, l’unica alternativa alle serate davanti alla TV.
E poi lui, il cane Tom – il cane cieco che picchia craniate dappertutto. Tom è la vita che non va più da nessuna parte, che non trova vie ma solo pareti e tronchi che gli sbarrano il cammino. Ma è anche l’amore regalato, l’affetto incondizionato, la dolcezza piccola di chi non chiede molto. Un amore da cane, scontato, presente, cieco, destinato alla craniata perenne. Come quello della famiglia raccontata da Patella. Con stile, ironia, intelligenza e assoluta tenerezza. Persino la disperazione, in questo racconto proprio proprio bello, è piccola. Persino la morte.
Sarà difficile per noi buttar via il collare di Tom, dopo avere letto questo racconto. Ci sono cani ciechi in ognuno di noi, cani dai denti smussati e dall’orientamento perduto. Patella ci ricorda che si può essere tristi, ma senza tristezza. E non è poco.

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